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Come assistere un malato di Alzheimer

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Cosa succede  ai parenti di un malato di demenza?

Come assistere un malato di Alzheimer, una malattia della tarda età che trasforma completamente la vita del paziente e dei propri famigliari. 

Una malattia che si aggiunge, ad un altro aspetto, quello dell’invecchiamento, che comporta tutta una serie di cambiamenti dovuti alla solitudine, al decadimento fisico, in alcuni casi a maggiori problemi economici, alla sicurezza, … 

Tuttavia, oltre all’invecchiamento, potrebbe aggiungersi anche un altro problema e cioè quello delle malattie in generale (si è più fragili) ma in alcuni casi le cose si complicano se la malattia è di tipo degenerativa, o peggio ancora, è  invalidante come la malattia dell’Alzheimer. 

Tale malattia infatti, si porta dietro una complessiva limitazione delle proprie abilità motorie e cognitive. Assistiamo infatti ad una radicale trasformazione delle condizioni di vita, sia del malato che di chi lo circonda, sia a livello pratico e comportamentale che a livello affettivo e relazionale.

La famiglia rappresenta il punto di riferimento più immediato ed efficiente per garantire un’assistenza domiciliare, anche nel caso in cui il soggetto anziano, sta sviluppando o ha già sviluppato una demenza. 

Trovandosi dinnanzi   alla   sofferenza  che questa patologia comporta   ed   al   bisogno reale   di   prendersi   cura  giorno per giorno e sempre più   assiduamente  del  malato,  è  normale  che  gli  equilibri  familiari  si modifichino.

L’ambiente,  considerato nella sua più ampia accezione di  contesto  umano e relazionale,  deve  essere  adattato  al  soggetto  in  modo  da  consentire il mantenimento  delle  abilità funzionali  residue  per un tempo  più  lungo  possibile anche per limitarne e ritardare al massimo l’aggravarsi dei suoi disturbi comportamentali.

Non sono pochi i cambiamenti che i famigliari di un anziano con la malattia di Alzheimer o altre demenze, devono apportare nella loro vita personale e nel rapporto con questa persona che ne è colpita.

Riorganizzazione dei rapporti e del tempo

Bisogna infatti, riorganizzare il tempo da dedicare alla cura ed alla sorveglianza del parente, cercando di conciliarle con gli altri impegni lavorativi e di relazione.

Si modifica anche   la  gestione  dei  rapporti  sociali  extrafamiliari.  Spesso, i famigliari di una persona con questa patologia, possono trovarsi in difficoltà dal momento che il comportamento può subire notevoli cambiamenti, anche socialmente discutibile o criticabili. Ad esempio, in spazi aperti o particolarmente affollati, questi pazienti potrebbero avere comportamenti inadeguati, a volte anche imbarazzanti.

 Queste situazioni critiche e dolorose, portano spesso il familiare a vivere l’esperienza  di  un  ribaltamento  dei  ruoli  che in precedenza, caratterizzavano    la  struttura familiare:  succede  cosi  che  il  malato,  un  tempo  genitore  capace  di  cure  e  di  sostegno,  diventa un  “bambino”   che ha bisogno  di  molte cure ed attenzioni.

Sono molti e non trascurabili i fattori psicologici individuali del familiare che è chiamato a gestire la sofferenza legata alla  sensazione  di  perdita  e  di  impotenza  oltre al l’ansia connessa alla  difficoltà  di  capire  cosa  stia  davvero  accadendo a  quel nostro caro che  magari  fino  a qualche tempo  prima, era e rappresentava  il  “pilastro”  affettivo e relazionale della famiglia stessa che ora si sta e si deve riorganizzare intorno a lui o lei.

Accettare che un anziano, padre, madre o coniuge, della nostra famiglia si sia o si stia ammalando di Alzheimer o di altra demenza, non è semplice e spesso, prima che ciò avvenga, sono molte le difese psicologiche attuate. Vediamo quali sono le principali e più note, senza trascurare la possibilità ce ne siano altre del tutto soggettive.

Difese psicologiche – negazione

Davanti alla malattia, tanto più per una patologia così grave, una delle prime difese più comuni nelle reazioni umane, è la negazione, ovvero il rifiuto di credere che quanto sta accadendo al malato e di riflesso a noi,  sia vero.

Le difese attuate in queste circostanze, rappresentano  delle reazioni  del  tutto  normali, quando non superano per intensità e durata nel tempo un certo limite, tale da non permetterci da  mettere in campo comportamenti adeguati ed idonei a supportare il parente ammalato.

Queste difese  psichiche  hanno inizialmente lo scopo di mantenere il nostro equilibrio personale: è come se la nostra mente, avesse infatti bisogno di  prendere le distanze dalla gravità della malattia, concedendo a sé stessa del tempo prima di affrontare la realtà vera con tutto il dolore che essa porta con sé.

Cosa accade durante il periodo di Negazione?

Il bisogno di negare ed il  rifiuto  di  credere  che  ciò  che  sta  accadendo  sia vero, generalmente, spinge la famiglia del malato ad alcuni comportamenti tipici. Questi consistono nella ricerca affannosa di specialisti  diversi, nella speranza che essi confermino che la diagnosi avuta dal congiunto, non sia altro che un errore.

E’ vero che ci sono molti errori diagnostici e falsi motivi in tutte le patologhe considerate in medicina  però, in questo caso, quando si ha davvero la certezza della diagnosi,  possibilmente formulata da un centro di eccellenza specializzato è molto meglio, anzi, è indispensabile   evitare di fare altre inutili ricerche. 

Dobbiamo poi considerare che anche se in buona fede e per autodifesa, noi potremmo addirittura danneggiare il parente malato di demenza, perché implicitamente, attraverso la ricerca ossessiva di qualcuno e qualcosa che possa migliorare le sue condizioni, gli chiediamo delle prestazioni comportamentali che egli o ella, non è più in grado di dare, a causa della malattia stessa, facendolo sentire peggio.

Difese psicologiche –  Ansia e ipercoinvolgimento

Vivendo a contatto con il parente affetto da Alzheimer o altra demenza, con il tempo, aumenta necessariamente la consapevolezza della natura della malattia con cui si chiamati a fare i conti e la realtà inizia a non poter più essere negata.  La nostra parte più razionale prende il sopravvento, almeno spingendoci a comprendere che purtroppo, non esiste né il medico né il farmaco miracoloso

Ci si rende conto di trovarsi piuttosto  davanti  ad un male che provoca dolore e smarrimento ma non solo; esso è infatti fonte di grande ansia che può portare il familiare che si prende cura o è più vicino al malato ad un esagerato “voler fare“, al fine di tenere la mente occupata con altro. Non è facile vedere un proprio caro, soffrire giorno dopo giorno di questa malattia neuro-degenerativa, che non lascia speranze ad una vera risoluzione.

Si tende spesso a diventare iperattivi ed anche a sostituirsi al malato in ogni settore della vita dove egli mostra difficoltà, per aiutarlo ed impedirgli di fare male le cose o anche, impedendogli di farle al fine di contenere la frustrazione dell’inevitabile insuccesso. 

Lo sviluppo di un  atteggiamento  iperprotettivo  ed  eccessivamente  coinvolto  è  una  difesa, del tutto umana e comprensibile, davanti   al  dolore  che si prova nel dover  riconoscere  di  fronte  a  se  e  agli  altri  che  il  malato  non  è  più  completamente  autosufficiente dal momento che ha sempre bisogno di noi o di altri.

Difese psicologiche – Cosa non fare

Contenere il tentativo di totale sostituzione in tutto e per tutto al malato; non lo aiuteremmo a mantenere il più a lungo possibile le sue capacità residue, perchè anzi, accadrebbe il contrario.  La pratica riabilitativa, infatti, insegna che  se le risorse residue non vengono allenate, se ne favorisce il progressivo esaurimento.

Difese psicologiche – Sensi di colpa

L’esordio e l’avanzare della malattia, può provocare nei parenti, dei profondi sensi di colpa. Ci si rende conto che spesso, quando ancora non si era ben compresa la reale portata del problema,  che venivano richiesti o criticati comportamenti  che spesso erano anomali; ci si sente i colpa per aver perso la pazienza proprio in quelle condizioni dove avremmo dovuto essere più tolleranti.

A questo si aggiunge che ora che la malattia si è conclamata, potremmo provare sentimenti di vergogna per la sua condizione, ogni qualvolta  dobbiamo portarlo in uscite pubbliche o anche perché sentiamo la nostalgia di quando era ancora nel pieno del suo vigore.

Quando ci si ferma a volte, a domandarsi che senso abbia una tale assurda sofferenza può succedere  che umanamente, ci si ritrovi a desiderare  che  tutto  finisca al più resto, arrivando   in  alcuni  casi,  ad  augurare anche una rapida morte al malato.  E questo fa aumentare il senso di colpa, spesso già straziante. Cosa fare allora in questi casi? 

E’ inutile rimproverarsi dicendosi “ci stiamo comportando male, non dobbiamo arrabbiarci“;  i sentimenti negativi, sono del tutto umani ed essi, vanno gestiti e non rifiutati o repressi, perché potrebbero poi tornare in forma diversa, più intensa ed emotivamente disturbante.

Non è necessario né utile soffocare le proprie emozioni negative per ottemperare ad una sorta di  assurdo dovere che ci vuole sempre in grado di dominare turbamenti e stati d’animo. Questo infatti, semplicemente, ci  allontana dal fare i conti con la realtà che viviamo e che dobbiamo gestire una volta per tutte.

Difese psicologiche – Rabbia

Man  mano  che  la  malattia  progredisce  attraverso  le  sue  fasi  tipiche,  ci  rendiamo  conto  che  il  nostro  continuo  investire tempo ed  energie  per  riportare  il  malato  alla  condizione  “normale” non riuscirà ad avere un esito positivo.

Ecco allora che nascono in noi sentimenti  di   forte   delusione e  di   fallimento   che   spesso, provocano un senso di irritazione,  nervosismo,  rabbia.    Ci  arrabbiamo  con  noi  stessi  perché  ci  vediamo  impotenti  e  incapaci  di  risolvere  il  problema,  e  ci  arrabbiamo  con  il  malato  perché  è  caduto in questa terribile situazione, perché ha sviluppato questa terribile patologia: i suoi movimenti sconnessi, la sua difficoltà a comunicare, la sua voce sempre più fievole, ci infastidiscono.

Ciò non vuol dire che lo amiamo meno: l’amore e la rabbia sono spesso, le facce di una stessa medaglia. Non è sempre semplice esprimere i propri  sentimenti, soprattutto quando essi sono così tanto in contrasto tra loro. Può  in questi casi essere utile riflettere sul vero oggetto della nostra rabbia.

In realtà, se solo riflettiamo più approfonditamente, comprendiamo che a disturbarci veramente, non è la persona in sé, il nostro parente che si è ammalato senza colpa quanto piuttosto, il suo comportamento. Per tale motivo,  bisogna diventare consapevoli ed accettare che il  paziente  è  ammalato  e  il  suo  comportamento  patologico  e disturbante, non  è  diretto  intenzionalmente verso di noi.

Di fronte a momenti di rabbia, più che colpevolizzarci, ciò che dovremmo fare, è cercare  assistenza e parlare con  altre persone che  hanno  avuto un parente con le stesse problematiche o  che  stanno  affrontando, contemporaneamente a noi, la  nostra  stessa  esperienza.

Questo tipo di sofferenza, sconvolge la vita e la routine quotidiana di molte persone e le famiglie dovrebbero organizzarsi in gruppi di mutuo aiuto e di discussione per supportassi reciprocamente,  E’ importante comprendere che non siamo soli e che non dobbiamo esserlo, quindi dovremmo chiedere aiuto a chi ha il dovere di prestarlo. Sia nelle Asl che negli appositi centri. E’ possibile anche chiedere contemporaneamente, un aiuto psicologico individuale.

Difese psicologiche – Accettazione

Arriva quindi il momento di affrontare ed elaborare, accettare  e  affrontare  le  nostre  sofferenze psicologiche  per  poterle  superare.  Soltanto in questo modo, potremo creare le  condizioni basilari necessarie per attuare i cambiamenti nelle dinamiche intra familiari   e   nelle modalità   comunicative   necessarie e funzionali  allo sviluppo di nuovo equilibrio personale e familiare.

Per fare questo è necessario concedere un po’ di tempo a noi stessi. Non dobbiamo esitare a chiedere  un  aiuto  assistenziale esterno  attraverso  una  forma  di  supporto  domiciliare  o anche  di  brevi ricoveri. Senza fingersi eroi, dobbiamo invece valutare realisticamente le nostre forze, concedendoci anche dei momenti  di  riposo  e  di  svago, senza temere di essere egoisti, perché soltanto pensando anche a noi stessi, potremo essere efficienti come desideriamo ed al meglio delle nostre possibilità, nell’assistere il nostro parente malato.

La nostra sopravvivenza psico emotiva, ci impone di impedire alla malattia di diventare il centro  unico della nostra vita. Il compito di cura  e  assistenza  è   molto  impegnativo e  richiede  la  continua  accoglienza  delle  emozioni del malato e quindi, naturalmente, delle nostre. Per un parente che attraversa un momento di fragilità, può essere utile un sostegno psicologico, prima che l’ansia si trasformi in panico e la grande tristezza, il dolore, in depressione e disperazione.

Dovremmo allora imparare a conoscere ed  prepararci ad affrontare tutte le diverse fasi della malattia,  i  disturbi connessi al  suo progredire, imparare a dare il giusto nome ai segnali che il malato ci invia, che non sono contro di noi ma al di fuori del suo controllo, anche quando è aggressivo o fallisce in un compito o non riesce ad esprimersi come un tempo per dire una cosa semplice.  

A cura della D.ssa Elisabetta Lazzari

 

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