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Jung e l’utilità della solitudine

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Jung e l’utilità della solitudine

Intervista immaginaria a Jung, tratto dal volume: A colazione con Jung, di Gian Piero Quaglino e Augusto Romano a pagg. 80 e segg …

Elliot Sandler, redattore delle pagine di psicologia dell’Oxbridge Literary Review, scrisse a Jung nell’aprile del 1961 per proporgli un’intervista. Jung rispose che si sarebbero potuti incontrare prima dell’estate. A metà giugno Sandler venne a sapere che Jung era morto. Qualche giorno dopo fece un sogno: si trovava sulla riva di un lago al di là di un fitto canneto.

Era una limpida giornata d’autunno. Ad un grande albero i cui rami toccavano l’acqua era appeso un cartello di legno con la scritta “Bollingen Panorama”. Al centro del lago una piccola barca tagliava di traverso. La vela era gonfia di vento. Al timone nessuno. Poi la scena cambiava. Ora Sandler si trovava sulla veranda che dava sul giardino di casa Jung a Kusnacht. Il sogno gli mostrava se stesso alle prese con l’intervista. Al risveglio ne ricordava ancora alcune battute.

Jung: Così è accaduto nei momenti cruciali della mia vita. Ho accettato di lasciarmi trasportare dalla corrente, senza sapere dove mi avrebbe portato. Tentavo di resistere, di oppormi alla forza che mi trascinava, ma ogni volta ero vinto non sapendo dove mi avrebbe condotto.Ho sperimentato quanto sia faticoso opporsi a questa corrente e quanto invece sia benefico affidarvisi senza regole, ho imparato, con gli anni, a lasciarmi portare.

Sandler: Lei dice, dunque, che dovremmo credere che esista questa forza, e che sia dalla nostra parte, proprio in quei momenti in cui tutto sembra perduto.

Jung:  Non so se dobbiamo crederci. Io stesso non ci credo. Io lo so, è diverso. So che c’è una forza che sa dove condurci: essa ci porta esattamente là dove dobbiamo realizzare il nostro divenire. Tutti noi, del resto, possiamo giungere a saperlo. Conoscere se stessi è un imperativo noto, ma sfortunatamente da molti dimenticato. Divenire se stessi non è solo un imperativo, è il telos della nostra esistenza: questo è dimenticato da quasi tutti. Se il significato della vita è che essa ci ha posto un problema, questo problema, appunto, è il nostro divenire.

Sandler: Che dire allora dei nostri progetti, dei nostri piani per il futuro? Dovremo abbandonarli tutti?

Jung: Non è questo il senso di ciò che intendo dire. Noi possiamo fare le nostre cose, decidere i nostri traguardi, o, più semplicemente, come si preferisce, fare il nostro dovere. Resta il fatto, che tutto ciò corrisponde ad un’idea di sé che rappresenta solo quell’immagine dell’Io cosciente alle prese con l’opera del mondo. Al di sotto si svolge tutt’altra storia. Sicchè le due vicende possono andare perfettamente d’accordo, ma è molto difficile che ciò accada per lungo tempo.

Ad un certo punto, il timone con il quale l’Io conduce le sue faccende vorrà sfidare la corrente: così potrebbe entrare in contrasto con il vento o forse il vento stesso potrebbe improvvisamente mutare. Intendo dire che in qualche momento della nostra vita potremmo attenderci un rovescio. Se non vogliamo piegare la natura ai nostri comandi, sopravvivere alla tempesta non dovrebbe essere così difficile. Se l’Io, viceversa, si oppone, rischieremo di essere travolti.

Sandler: Dunque lei sta dicendo che non è ai nostri piani che dobbiamo rinunciare, ma piuttosto all’idea di condurli con mano sicura, con determinazione e volontà?

Jung: E’ proprio così. Non bisogna confondere il divenire che ci espone ad ogni sorta di conflitti, di incomprensioni, di tradimenti con l’avventura del self-made-man. L’affermazione di sé lavora contro il divenire. L’affermazione di sé è l’egoismo dell’Io. Una pianta che debba essere portata alla massima fioritura deve poter crescere nel suo terreno. Il suo terreno è qualcosa di più intimo di quanto potrebbe mai essere ogni progetto autoimposto, di così intimo come solo può essere il nostro Sé.

Sandler: Qualcosa si può fare per questo?

Jung: Questo implica e richiede soprattutto di sottrarsi al tempo. Sottomettersi al tempo quando esso sia il tempo del progetto, ovvero il tempo dell’Io nel mondo, è la principale causa di nevrosi che ho accertato. Al diavolo l’Io nel mondo! Quel tempo infatti non è mai nostro ed è un’illusione immaginare di piegarlo a noi.

Nella realtà quel tempo si imporrà sempre, sarà lui a decidere delle nostre scelte e, ad un certo punto, comincerà a lavorare contro di noi. Si impadronirà di quello che indichiamo come “tutto il nostro tempo”, e noi saremo costretti a ripetere la solita litania del “non ho tempo”. Per questo la nevrosi è una frattura con sé, una profonda incrinatura del tempo vissuto. Per questo la sua cura consiste nella restituzione e nella riconquista del nostro tempo.

Sandler: Ma cosa vuol dire riprendersi il tempo?

Jung: Occorre evitare di pensare che riprendersi il tempo voglia dire dedicarsi all’ozio. L’ozio è un’illusione alimentata da coloro che, ancora una volta, vogliono prenderci il nostro tempo riempiendolo del loro nulla. In questo senso è la polarità opposta di quella di essere completamente assorbiti dall’Io e dal suo progetto: non c’è alcun equilibrio né in un caso né nell’altro.

Dobbiamo svelare la trappola: sono gli altri che ci condannano al loro egoismo se accettiamo il loro tempo. Ed è in primo luogo in famiglia, che ciò può accadere. Non è possibile vivere troppo lungamente nei dintorni infantili senza mettere la propria salute in pericolo. Se venisse un giorno in cui fosse possibile protrarre la permanenza in famiglia sarebbe un giorno infausto. La vita ci chiama in avanti verso l’indipendenza e chiunque non facesse attenzione a questa chiamata, per pigrizia o per timidezza infantile, sarebbe già contagiato dalla nevrosi.

Sandler: Ciò che lei sostiene è assai convincente, ma resta il fatto che pare anche assai impegnativo e costoso. Qual è il prezzo da pagare per la propria indipendenza?

Jung: il prezzo da pagare per tutto questo non è altro che la solitudine. Affermare la propri indipendenza, non soggiacere al tempo degli altri e affidarsi alla corrente del divenire, sono tutte operazioni che hanno per oggetto la conoscenza di sé. Ora, conoscere sè, è conoscere la solitudine. Più si avanza nella conoscenza di sé, più si scopre che si è soli. Si scopre anzi la necessità della solitudine.

Vi sono momenti in cui ogni parola mi sembra futile e vana. In quei momenti, non c’è ristoro se non nella solitudine. Se fosse possibile dovrei parlare di “solitudinizzarsi”, come equivalente dell’individuarsi, di quel divenire Sé di cui stiamo dicendo. Ma mi pare che la governante ci stia sollecitando a interrompere, per lasciar posto alla nostra colazione.

A ottobre di quell’anno, Sandler si recò a Bollingen per intervistare Marie Louise fon Franz (allieva di Jung). Essendo in anticipo sull’ora convenuta, sostò in riva al lago. Al centro del lago una piccola barca tagliava di traverso. La vela era gonfia di vento. Al timone nessuno.

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