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In questa pagina: Male, Messa in atto, metafora, metodi riduttivo e sintetico, mito

Male

Jung aveva verso il male un atteggiamento pragmatico. Come ripeteva spesso, il problema non lo interessava in una prospettiva filosofica ma dal punto di vista empirico. In quanto psicoterapeuta, riteneva di dover avere innanzitutto a che fare con il giudizio soggettivo dell’individuo riguardo a ciò che sia bene o male. Ciò che in un dato momento può apparire come male o perlomeno come privo di senso può, ad un livello più alto di coscienza apparire come una fonte di bene.

Quand’era ragazzo, Jung si trovò messo a confronto con il lato oscuro, impuro e inammissibile di Dio in una visione. Più tardi egli concettualizzò questa visione e  le diede validità psicologica., identificando ciò che aveva visto come l’ombra del dio cristiano. Nel Se  empirico, da lui equiparato ad un’immagine di Dio, luce e ombra (bene e male) formano, sostiene Jung, un’unità paradossale. Secondo Jung il bene e il male sono i principi del nostro giudizio etico, ma ridotti alle loro radici ontologiche, sono ‘inizi’, aspetti di Dio. Un principio è un’entità sovraordinata, più potente del giudizio stesso di un individuo, un attributo dell’immagine archetipica di Dio. Di conseguenza, dal suo punto di vista, il problema non può essere relativizzato. Gli esseri umani devono fare i conti con il male in quanto tale, riconoscendone il potere e la demoniaca ambivalenza.

Messa in atto

La messa in atto, da tenere distinta dall’agire,  si può definire come il riconoscimento e l’accettazione  di uno stimolo archetipico, con il quale si interagisce pur mantenendo il controllo dell’Io, permettendogli in tal modo di dispiegare il suo significato metaforico in una maniera personale  e inividuale. In contrasto con l’agire, la messa in atto richiede uno sforzo  dell’Io cosciente, cosicchè agli elementi archetipici dilaganti possa essere data un’espressione individualizzata.

Metafora

 

Metodi riduttivo e sintetico

 

Mito

Le ricerche di Jung sui contenuti dei sogni nonchè delle allucinazioni dei suoi pazienti psicotici lo portarono a concludere circa l’esistenza di innumerevoli connessioni psichiche per le quali, dice, riusciva a trovare dei paralleli soltanto nella mitologia. Escludendo l’esistenza di precedenti associazioni, da parte dei pazienti, o quella di qualsivoglia conoscenza dimenticata, di tali connessioni, ne derivò la sensazione di trovarsi in presenza di elementi separati da qualsiasi influenza cosciente. Di conseguenza, giunse alla conclusione che le precondizioni per la formazione dei miti debbano essere presenti entro la struttura della psiche stessa. Ipotizzò allora l’esistenza di un inconscio collettivo o deposito di strutture, esperienze, temi archetipici.

I miti sono storie di incontri archetipici. Così come la fiaba è analoga all’operatore del complesso personale, il mito è una metafora dell’operare dell’archetipo in se. Come i suoi antenati, conclude Jung, l’uomo moderno è un forgiatore di miti; egli rimette in scena drammi secolari basati su temi archetipici e, attraverso la sua capacità di portarli alla coscienza, è in grado di liberarsi della loro presa coercitiva.

In una sequenza di miti, i primi tra gli dei e le dee rappresentano un disegno di base che si dispiega o si differenzia nelle storie dei loro discendenti. Le storie mitiche illustrano, quello che succede quando un archetipo procede a briglia sciolta, senza intervento cosciente da parte dell’uomo. Al contrario, l’individualità consiste nel confronto e nel dialogo con tali potenze fatidiche, riconoscendone la forza primaria ma senza sottomettersi ad essa.

 

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